La Tana delle Fate e la tenda senza tenda

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Disclaimer: L’escursione che racconto NON è il percorso classico per arrivare alla Tana delle Fate. Il sentiero ordinario parte da Mioglia, loc. Pianelli, ed in circa 2,5 km si arriva alla Tana, stesso sentiero per tornare indietro, classificabile come T/E.

La presente escursione invece si sviluppa all’80% fuori sentiero, nei boschi, con partenza ed arrivo a Loc. Lago dei Gulli, Sassello.
Ho inserito anche la tag “bambini” solo perchè nell’escursione illustro alcune attività ludiche divertenti per i bambini, che possono essere riproposte in itinerari differenti e più semplici (orientamento senza bussola, studio delle carte, individuazione di ostacoli naturali, analisi del miglior percorso, ecc.).
Se avete intenzione di ripercorrere lo stesso itinerario con dei bambini abbiate sicurezza che i bambini che porterete con voi abbiano sufficienti abilità di cammino ed equilibrio, e siano abituati a percorrere svariati km fuori sentiero, e sospendete e tornate subito indietro se vi rendete conto che non è cosa per loro.

Previsioni del tempo: Sole che spacca, sabato e domenica, cosa di meglio che andare a dormire in tenda?

Stavolta, la meta che abbiamo prefissato è la Tana delle Fate, una grotta naturale nel territorio di Mioglia, al confine con il comune di Sassello. E visto che ci volevamo divertire abbiamo fatto il gioco “dell’esploratore”.

Ho posteggiato direttamente al parcheggio dietro al Lago dei Gulli (quindi non quello che ho indicato l’altra volta), e di buon mattino c’erano ancora 7° e faceva freschetto. Lasciamo in macchina tutta l’attrezzatura pesante per dormire, tenda e sacchi a pelo, e pentolame vario, e partiamo leggeri perchè il percorso sarà un po’ difficile.

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Per il “gioco dell’esploratore” avremo bisogno solo di tre elementi essenziali:

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Una matita, un righello, e la carta della zona.

Utilizzo in preferenza i CTR 1:5000 della Regione Liguria, sono scaricabili direttamente dal sito della Regione e si possono stampare le singole aree di interesse.
Nel CTR in questione non è segnata la Tana delle Fate, ma è ricavabile da una sovrapposizione con openstreetmap dove invece è segnalata.

Riportiamo l’ubicazione della grotta sul CTR e decidiamo il percorso migliore per raggiungere la stessa dalla posizione dove siamo ora.
Studiando le curve di livello, e raffrontandole con il territorio e gli ostacoli che vediamo intorno a noi, stabiliamo di procedere in direzione della vetta di Monte Bono, per poi tagliare da lì verso la grotta, e successivamente trovare un percorso per tornare al “campo base”.

In nostro aiuto, come orientamento e direzione, notiamo che un cavo elettrico è steso nella stessa identica direzione e potrà essere preso come punto di controllo, sia per seguire la direttrice per la vetta, sia per capire quanto distiamo dall’azimut nel caso il folto del bosco intorno non ci permetta ulteriori riferimenti.

Fissiamo il primo punto al parcheggio, e fissiamo contemporaneamente l’ora di partenza. E’ importante segnare sempre anche l’ora oltre al punto, in modo tale da poter avere una traccia del tempo percorso.

Da subito il “muro” che ci troviamo davanti ci consiglia di procedere per il bosco invece di affrontare il tratto “disboscato” classico che si trova sotto ai cavi elettrici. Torneremo verso il cavo di tanto in tanto lungo il tragitto quando il terreno lo consentirà.

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Iniziamo quindi l’ascesa verso il Monte Bono in un fitto bosco e terreno impervio, segnando di tanto in tanto il punto e triangolando con i monti circostanti.

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Per l’orientamento della carta, non utilizzando la bussola, sfruttiamo direttamente il sole che quel giorno è splendido in un cielo senza nubi.

Orientamento della carta e punti cardinali
Per l’orientamento della carta si possono utilizzare tre metodi con il sole e tutti e tre estremamente precisi.
Il primo consiste nel piantare un bastoncino, verticalmente, segnare la cuspide dell’ombra proiettata, aspettare 15 minuti e segnare la nuova cuspide. L’unione delle due cuspidi darà la direzione Ovest-Est e da lì ricavate gli altri segni cardinali.

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Il raffronto con una bussola vi mostrerà che la direzione rilevata con questo metodo è sufficientemente accurata.

Metodo del bastoncino bis: serve sempre aspettare 15 minuti, ma potete piantare il bastoncino inclinato nella direzione del sole, in modo che non proietti affatto ombra. Dopo 15 minuti lo stesso proietterà un’ombra, la direzione tra la base del bastoncino e la cuspide dell’ombra segna nuovamente la direttrice Ovest-Est.

Il secondo metodo è aspettare il mezzogiorno solare (locale), da noi era alle 13.17 (ora legale+differenza rispetto al meridiano italiano).
L’ombra verrà proiettata direttamente verso Nord, lungo la direttrice Sud-Nord.

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Nuovamente, potete controllare con una bussola l’efficacia del metodo.

Il terzo metodo, che non abbiamo utilizzato, è disporre di una bussola solare, ovvero un cartoncino che permetta di orientare la carta grazie alle curve, raggi e direttrici segnati sullo stesso, conosciuta l’ora. Nel caso in cui non si disponga di una bussola solare il metodo è utilizzabile lo stesso con discreta precisione, suddividendo un foglio di carta nelle 12 ore, ma tale metodo “casereccio” è utilizzabile solo nei mesi invernali, indicativamente da ottobre a febbraio.
Durante il corso dell’anno, infatti, vengono introdotti errori di svariate decine di gradi sulla “divisione perfetta in 12” ed il metodo non è più utilizzabile se non disponete delle “curve” del sole ai vari orari.

Triangolazione
Una volta che la carta è orientata, è sufficiente un piccolo righello per traguardare punti noti del territorio e tracciare direttamente gli azimut sulla carta. Una base di appoggio (es uno di quei block notes con retro rigido e clip) facilita l’operazione. Anche in questo caso, non avendo necessità di precisione da topografi, il metodo è sufficientemente preciso, occorre solo assicurarsi di non ruotare la carta mentre la si tiene in mano e si traguardano i punti notevoli sul territorio.
Un trucco, per assicurarsi di questo, è guardare un oggetto vicino (un tronco di un albero, una roccia, ecc) ed assicurarsi che la carta non cambi orientamento rispetto ad esso mentre la teniamo in mano e traguardiamo i punti che ci interessano.

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Da subito ci buttiamo nel bosco cercando di sfruttare la pendenza più dolce senza affrontare l’ascesa diretta, con un occhio al sole, uno al cavo quando riusciamo a vederlo, ma soprattutto all’orografia e quindi alla pendenza delle colline che stiamo superando.

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Una cosa importante è osservare le ombre mentre camminiamo, a partire dalla nostra stessa ombra. Se abbiamo orientato la carta, e quindi conosciamo come sono orientati i punti cardinali quando siamo partiti, allora ci basterà guardare, anche ogni pochi passi volendo, la nostra ombra e capire se stiamo mantenendo la direzione corretta, oppure in quale direzione stiamo deviando e così via.
Considerate che il sole percorre nel cielo 15° ogni ora, quindi la nostra ombra ci verrà utile per lungo tempo prima di essere costretti a stabilire nuovamente la direzione dei punti cardinali.

Arrivati sulla vetta del Monte Bono si era già fatta l’ora di pranzo, e vista la fatica decidiamo per un buon pasto ristoratore e un po’ di pausa.

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Dopodichè “traguardiamo alla rovescia” la Tana delle Fate. La grotta non è visibile dalla cima del monte, sappiamo solo la sua ubicazione grazie alla carta e sappiamo che è “lì sotto da qualche parte”.
Allora con lo stesso metodo visto sopra (righello e carta “all’occhio”) stimiamo il suo azimut sul territorio e prendiamo come riferimenti i monti intorno.

Poichè i boschi continueranno ad essere fitti ci aiuteremo anche con le curve di livello, ovvero l’interpretazione dei pendii e delle rive strette dei rii della zona per orientarci, oltre, naturalmente, al metodo delle nostre ombre quando possibile.

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Riusciamo finalmente ad arrivare alla posizione della grotta, un enorme masso verde di muschio è subito di fronte alla stessa, come un guardiano a protezione.

E questo è l’anfratto, non visitabile internamente se non dotati di apposita attrezzatura da speleologia (mi riferisco a corde, non alle torce).

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Fatta un’altra sosta, merenda, e godendo del verdissimo boschetto nel quale ci troviamo, identifichiamo la “via d’uscita” per passare dalla grotta e tornare verso il torrente dove dovremmo incrociare un sentiero a valle che ci riporterà alla macchina.

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Aggiriamo il Bric Rianoz, estremamente scosceso, e scendiamo in una strettissima valletta, estremamente suggestiva. Di fronte e molto più a valle scorre il torrente, e di tanto in tanto il vento ci porta la sua musica.

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Intercettiamo infine il sentiero che a mezza costa segue il corso del torrente e rapidamente torniamo verso l’auto. L’avventura è andata benissimo, siamo stanchi ma felici, ed in fondo, come diceva sempre mio nonno, per non perdersi basta sapere dove ci si trova 🙂

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Il tempo di prendere tenda e sacchi a pelo ci spostiamo verso la radura grande di cui vi ho già parlato e dove passeremo la notte. Una buona zuppa di legumi per rinfrancarci dalle fatiche della giornata e poi a nanna.

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La notte la temperatura scende a 4 gradi, le vallate del sassellese sono sempre piuttosto fredde, anche d’autunno, ma la mattina ci accoglie con un’altra giornata di sole radioso.

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Fatta colazione con il fornelletto concepito da paiolo (ottimo fornelletto @paiolo!), facciamo asciugare la condensa dal sopratelo della tenda e intanto monto l’incerata per fare alcune foto per un amico del forum avventurosamente.it.

Incerata montata a tenda con catino (Il Fagiolone)

Questo metodo me lo hanno insegnato alcuni amici anni fa, loro lo chiamano “il fagiolone” perchè gli ricordava un vecchio film ancora in bianco e nero su degli alieni che entravano nel corpo degli umani e… ma insomma non la sto a fare lunga, il metodo è molto semplice:

Io utilizzo un 4×3 e questo mi permette di avere un catino completo, è fattibile anche con un 3×3 ma in quel caso il catino copre solo un lato.
Lo stendo e lo rendo “quadrato” (così chi ha un 3×3 può visualizzare meglio il metodo).
Per un 4×3 potete sia ripiegarlo come da foto che lasciarlo completamente steso, in ogni caso i picchetti vanno inseriti nella forma quadrata.

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Una volta sistemati a terra i tre picchetti vi sarà sufficiente prendere il telo dall’altra parte, a metà e portarlo sul primo picchetto. Lo fissate ad un palo ed avrete già la struttura definitiva.

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Perchè, però, possa reggere al vento, occorre sistemare altri due tiranti, che partono dal palo e scendono verso gli spigoli. Io uso sempre dei cordini lunghi per l’incerata, questo mi permette con lo stesso cordino sia di fissare il palo che farlo passare per lo spigolo lungo e fissarlo al picchetto già posizionato. Con un “nodo da picchetti” infine lo posso regolare e in questo modo regolo tutta la tensione dello spigolo.
Stessa identica cosa dal lato corto.
Senza questi tiranti regge lo stesso, ma in caso di vento li consiglio fortemente.

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A questo punto chi ha un 3×3 ha finito, avrà un semi-catino su di un lato, un telo su cui sdraiarsi, e la possibilità di fissare le due pareti laterali a terra.

Chi ha un 4×3 e lo ha piegato come ho mostrato all’inizio ha un’altra possibilità:
distende il lato che aveva lasciato piegato sul fondo:

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Ne lega una estremità in verticale al palo e “appende” quello che resta sul tirante longitudinale che corre fino allo spigolo lontano.

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In questo modo avrà un catino completo, un telo, e un sopratelo che potrà scaricare a terra e fuori dalla “tenda” buona parte della condensa. E’ sufficiente ancorare il sopratelo pochi cm verso fuori e si avrà un effetto molto simile ad una tenda vera.

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L’impermeabilità ai piedi è garantita dalle pieghe del telo e del sopratelo che gli casca sopra, se siete in dubbio potete anche “chiudere” completamente la parte finale con un cordino ed un nodo.

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Per una areazione maggiore potete sempre tenere aperta l’apertura con un bastoncino messo di traverso e regolabile a seconda delle esigenze. Inoltre con il 4×3 potete avere anche uno spazio più ampio “calpestabile” con i lati aperti.

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Terminato questo piccolo giochino, e imballata tenda e ammenicoli e riportato tutto all’auto abbiamo dedicato il resto della giornata all’esplorazione di un luogo “segreto” nei dintorni.
Ma questa è un’altra storia.

Alla prossima.

Il Lago dei Gulli, l’amaca che non c’è, il pranzo cinese e altre avventure.

Ognuno di noi ha uno o più luoghi che porta nel cuore.
Per me uno di questi luoghi è il Lago dei Gulli.

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Non è in realtà un lago, ma una dolce ansa alla confluenza di due torrenti, il Rio Ciuia e il torrente Erro. Lo frequento fin da ragazzino, e da sempre è stato la mia valvola di sfogo quando avevo voglia di staccare un po’ e farmi una giornata in totale relax.

Si trova a Sassello (SV) e non lo conoscono in molti. Di quei pochi quasi tutti conoscono solo quell’ansa che da il nome al luogo, e di solito viene sfruttata in alternativa ai bagni al mare sulla costa ligure, sopratutto quando le spiagge sono ripiene come uova.
L’ansa, il lago dei Gulli, è particolarmente adatto per i bambini anche quelli che non sanno nuotare, lì l’acqua non risente praticamente per nulla della corrente e al massimo gli arriva al petto, inoltre il fondo in quel punto è sabbioso.

Ma come dicevo il posto non è frequentatissimo e fuori dai fine settimana di calore, tipicamente luglio ed agosto, è difficile trovarvi gente che vi si reca.
Pochi di quei pochi che vanno al Lago dei Gulli si spingono oltre, sul sentiero che diparte vicino al parcheggio. Anche perchè se con l’auto si seguono le indicazioni, all’ultimo bivio verrete indirizzati sulla sterrata a sud, e per poter imboccare il sentierino dovreste guadare il rio che in genere significa togliersi scarpe, calzini e pantaloni perchè il livello dell’acqua è sempre abbastanza alto.
Se invece con l’auto si prosegue dritti all’ultimo bivio, ignorando i cartelli, si può lasciare l’auto a fianco ad alcuni campi coltivati a mais, e si arriva direttamente davanti a dove inizia il sentiero e dove anche, a mio parere, si arriva alla parte più bella del luogo.

Il sentiero, per davvero poche decine di metri, parte con un salitone che potrebbe togliere il coraggio (la voglia) a molti, ma è tutta impressione, si arriva velocemente sopra uno spuntone di roccia dalla quale ci si affaccia direttamente sul lago dei Gulli sotto di noi.

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Da questo punto in poi è tutto pianeggiante, o con davvero poco dislivello, arrivando poi a scendere nella parte finale quando torneremo sul torrente più a valle. Ma niente di impegnativo, sto parlando di circa 500 metri di percorso reale.

La prima cosa che si incontra, superata la salitella iniziale, è un enorme conglomerato di Iherzolite ovvero una grossa roccia magmatica che affiora, come una palla messa lì apposta dal terreno circostante. Altre rocce del genere si trovano in vari punti, un’altra è proprio incastonata nella parete rocciosa che sovrasta il lago. La loro particolarità è che formano quasi delle sfere, e spiccano notevolmente rispetto alle rocce in cui sono inglobate.

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Da quel punto il sentiero si infila in un fitto boschetto, e nella zona troverete un po’ di tutto, pini, ma anche faggi, noccioli, olmi, querce, carpini, molte specie differenti.

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Il sottobosco, a differenza di come siamo abituati dalle nostre parti, non è eccessivamente fitto e potrete decidere di seguire il sentiero oppure lasciarlo per camminare direttamente nel bosco. Non potete perdervi perchè a destra avete i monti che si innalzano decisamente ripidi, ed a sinistra il suono del torrente vi seguirà per tutto il percorso.

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Superato il primo tratto di bosco sbucherete in una vasta radura. Tutta la radura è circondata da pini, e sullo sfondo si innalzano i picchi delle colline che contornano la stretta valle dove scorre il torrente Erro.

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Nella radura sono ancora presenti in un paio di posti i cerchi di alcuni “fuochi di bivacco”, specie vicino agli alberi, incivili che hanno lasciato le loro orme incuranti dei luoghi. Il contadino del  luogo provvede sempre a far sparire le pietre con cui vengono contornati i fuochi e cerca di ripristinare il suolo, ma le cicatrici rimangono per anni.

Sulla destra della radura sono presenti un po’ di ciocchi di legno che lascia a maturare, se siete fissati di “batoning” consiglio di batonarvi le ditina ed evitare di rubarglieli.

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Il sentiero prosegue oltre la radura, e nuovamente potete decidere se seguirlo oppure inoltrarvi nel bosco, in entrambi i casi dopo poco arriverete in un’altra radura, piccolina questa volta e chiusa davanti e di lato da un paio di colline estremamente ripide.

Verso l’estremità, al riparo di alcuni alberi in ombra, sgorga una piccola sorgente che non conosce praticamente nessuno, infatti di solito chi va al Lago dei Gulli si porta la sua acqua perchè le “voci” dicono che non ci sia acqua, ma non è necessario portarsela: l’acqua è presente ed è freschissima e ottima da bere.

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Da quando avete preso il sentiero, fino alla sorgente sono 500 metri esatti. Quindi anche se decidete di passare la giornata nella radura grande a giocare e fare un pic nic e rilassarvi all’ombra dei grandi pini, avete più o meno 5 minuti di strada per rifornirvi d’acqua alla fonte.

Se poi il Lago, la radura grande, il bosco non dovessero bastarvi, seguitemi perchè ora entriamo in quello che considero il vero “parco giochi” del posto.

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Subito di fronte alla sorgente diparte un piccolo sentiero, lungo appena 20 metri, e che scende direttamente nel torrente. Qui siamo più a valle rispetto al “lago” frequentato dai turisti e qui viene davvero poca gente, spesso nessuno.
Una piccola nota: da dove termina l’ansa che forma il “lago” fino a questo punto, potete arrivare comodamente con questo sentiero che ho descritto, ma potete anche discendere semplicemente il torrente dentro al torrente stesso. Incontrerete varie “rapide” che si susseguono con tratti estremamente calmi, e deliziose spiaggette sui bordi. Potete raggiungere questi tratti sia appunto discendendo il torrente, oppure tagliando per il bosco fuori sentiero. Sono sempre completamente deserti visto che la gente non sospetta nemmeno che esistano. Ma io non vi ho detto niente.

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Dicevamo, il “parco giochi”. Il parco giochi è il torrente stesso e l’orografia che gli fa da contorno. Lasciato il sentierino (termina) dopo la sorgente, vi ritroverete sulla riva destra, su di una grossa pietraia. Intorno avete le colline ripidissime, in alcuni tratti a strapiombo, e sulla vostra destra, nascosto dai cespugli, uno stretto passaggio sulle pietre vi porta ancora più a valle all’imbocco di un canalone che si sviluppa tra le colline.

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Il torrente diventa estremamente rapido, le colline sono brulle con pochi pini e rosse d’argilla, e le rocce lisce scavate dal torrente formano serpentine.

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Sempre sulla pietraia, oltre il passaggio nascosto dai cespugli, c’è un deposito naturale di legna portata dalla corrente quando il torrente è in piena dopo le piogge.
Inoltrandovi e saltando tra le rocce potete arrivare all’imbocco del canalone.

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Se volete discenderlo consiglio la riva destra, è possibile farlo su entrambe le rive, ma la destra rimane più agevole. Occorre fare qualche passaggio “su roccia” (le rive sono estemamente ripide) ma niente che non possano fare anche bambini con un minimo senso dell’equilibrio visto che gli appigli per mani e piedi sono numerosi.

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Se siete nel periodo estivo consiglio di usare calzature tipo “frati” ma sportive con carroarmato sotto in modo da potervi bagnare a vostro piacimento. E portate il costume, con la calura bagnarsi direttamente nel torrente è estremamente piacevole.

Oltre al paesaggio, che è semplicemente meraviglioso, ci si diverte proprio ad affrontare “l’esplorazione”, camminando sulle rocce, facendo finta di fare le arrampicate e magari cercando di acchiappare qualche pesce che sono qui numerosissimi: Gulli è il nome locale con il quale vengono chiamati i pesci di queste acque che tra l’altro contano Trote, vaironi, alborelle, barbi, cavedani di tutte le taglie.
Vi basta togliervi i calzini, mettere i piedi a bagno, e prestissimo accorrono a succhiarvi le “pellicine” con un simpatico pizzicorino sulle dita.

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C’è poi un altro luogo, un luogo “segreto” se vogliamo, ma quello che so di sicuro è che a parte me, e ora mio figlio da quando me lo porto dietro, in tutti questi anni non ci ho mai visto nessuno e non ho mai visto la benchè minima traccia di passaggio umano.
Tra la pietraia e l’imbocco del canalone, sulla collina di destra si apre una strettissima valletta rocciosa da dove un piccolissimo affluente, quasi un rigagnolo, arriva fino al torrente Erro.

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Con qualche semplice passaggio su roccia, in arrampicata, potete risalirla per incontrare di salto in salto le “marmitte dei giganti” ovvero le tipiche fosse scavate dall’acqua nel corso delle ere.

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E’ suggestiva, immacolata, e scoprirete con curiosità che anch’essa ospita pesci, nonostante la quota si elevi rapidamente.

Oggi alla pietraia (quella dove c’è il “deposito” di legna) ci siamo preparati un pranzetto “cinese” che in realtà erano un po’ di tagliarin nostrani bolliti con un dado.

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Poi, ci siamo messi a giocare un po’ agli “alpinisti”

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Siamo tornati indietro nel bosco per un altro piccolo gioco che con i bambini è divertente: farsi l’amaca anche se non si ha un’amaca. Che poi in realtà è molto semplice.
Basta che abbiate un telo (una coperta, un poncho) e un po’ di corda.

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Non servono legature o cose strane, l’amaca sta su da sola, il trucco è come ripiegate il telo tra le corde.
Vi serve: un telo e un po’ di corda, tipo da stendere i panni.
Poi cercate due rami per terra, se non sono della misura giusta potete romperli o con le ginocchia o se di diametro troppo spesso facendo leva tra due tronchi.

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Un semplice nodo parlato (ma anche senza nodo, bastano anche un paio di giri di corda intorno ai rami se non sapete farlo) e unite i due rami tra loro iniziando a creare la struttura che reggerà l’amaca. In pratica una sorta di rettangolo con i rami a far da lati corti e la stessa corda a fare i lati lunghi.

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Se vi avanza un po’ di corda la potete far passare poi sopra in alto a reggere quello che sarà il “tetto”, ma se non vi avanza vi fate un’amaca scoperta, non cambia niente.
Non serve coltello, e non servono nemmeno nodi, la stessa corda che passate intorno agli alberi e che dovrà sostenere tutto il peso potete “fissarla” semplicemente avvolgendola un po’ intorno agli stessi e facendo passare l’estremità della corda sotto i giri che avete dato. Quando andrà in tensione sarà sufficiente il peso ad evitare che si “sciolga”.

Poi prendete il telo e semplicemente ci avvolgete le due corde, avendo cura di fare una specie di “S” orizzontale. Non serve assolutamente altro, il vostro stesso peso terrà su il telo (l’attrito è una gran cosa), non dovrete legare il telo alle corde di sostegno della struttura.

Se vi avanza del telo potete passarlo sopra la corda che avete messo in alto a fare una sorta di “capanna”. E’ più divertente.

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E poi… buon riposo per la goduria di piccini e… grandi 🙂

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Se per caso ci fosse un po’ di vento potete appesantire il lembo che fa da “capanna” con dei pesi, pietre, un ramo. E’ concepito per non essere fissato al suolo e permettervi di entrare comodamente, vi sdraiate, tirare giù il lato del tetto con bastone/pietre incluse, e starà al suo posto anche se ci fosse un po’ di vento.

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Che altro dire. Se vi recherete mai in quei luoghi, trattateli bene, è una cortesia che vi chiedo. Se volete accendere il fuoco per cucinarvi qualcosa fatelo dai pietroni giù al torrente, e dopo fate sparire le vostre tracce, basta l’acqua del torrente stesso, e portate via i rifiuti. E’ un luogo a cui tengo.

E poi… divertitevi voi e i vostri bambini 🙂

Alla prossima

A passeggio per il Reixa e dintorni

Oggi sveglia alle 4, missione: ricognizione al Reixa (ai ricoveri non gestiti, lato mare).

Doveva essere una giornata normale, e già che c’ero ho deciso che avrei visto l’alba dal Reixa. Quindi data la distanza mi alzo alle 4, macchina e parto. Non era previsto il pernotto, dovevo solo fare un salto a un paio di ricoveri che conosco per constatarne l’attuale stato in previsione di un bivacco con mio figlio prossimamente.

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Come esco a Masone e prendo la provinciale panoramica che porta al Faiallo, nebbia densissima, tipo 4-5 metri di visibilità e stop. Mi dico: poco male, cambierà.
Posteggio verso le 5.45 al posteggio vicino al passo del Faiallo e in notturna prendo il sentiero nel bosco che dal Faiallo porta al Reixa. Nebbia fitta, ma tanto è notte, mi dico: poco male, cambierà.

Procedo lento e tranquillo, ho parecchio tempo e alle 7 puntuale per l’alba sono sulla vetta del Reixa. Solo che l’alba…

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Aspetto un’oretta fiducioso che il sole, scaldando, avrebbe fatto alzare le nubi, ma invano. Decido quindi di proseguire con il programma, prima tappa il Ricovero Buniccu, manutentato dallo stesso gruppo che si prende cura del Sambugu. Della sua esistenza (e rifacimento) me ne aveva parlato il responsabile del gruppo quando lo avevo incontrato su al Sambugu.

Per arrivarvi occorre tornare verso il Passo Vaccaria, ad ovest del Reixa sul crinale, e da lì prendere il sentiero “V bianca” che scende direttamente e molto ripidamente nel canalone sottostante, lato mare.

Prendo il sentiero che dalla cima brulla ben presto si trasforma in un bosco di pini, avvolto dalla magia della nebbia. Una leggera pioggerella, causata dalle nubi basse, si fa sentire di tanto in tanto.

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Il sentiero prosegue per il Passo della Gava, molto più a valle dove esiste un’altro ricovero non gestito, ma oggi la mia prima ispezione riguardava il Buniccu.
Ed eccolo, con un pino cresciuto in orizzontale e che quasi sembra appoggiato al piccolo ricovero. Di contorno ai pini, qualche nocciolo qui e là.

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Il ricovero è davvero piccolo, ma è fornito di tutto ed è un posto accogliente.

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Nel frattempo inizia a piovere più forte, quindi mi do un po’ da fare, sostituisco con un ramo il manico alla scopa di saggina che era rotto, do una spazzata per pulire un po’ il pavimento da terra e detriti vari, pulisco le superfici per dormire, la pietra-tavolo, raccolgo un po’ di rifiuti che avevo trovato negli angoli ed esco per prendere un po’ di legna da lasciare nel deposito, come vuole l’usanza di chi frequenta questi ricoveri, in modo da farlo trovare meglio a chi passa dopo.

Al ricovero non è presente acqua, ma esiste una fonte, poco lontana proseguendo sul sentiero, la fonte Leone, che sgorga tutto l’anno. Visto che ha smesso di piovere ed è ripresa solo l’acquarugiola tipica delle nubi basse, vado a darmi una ripulita e comunque il sentiero va nella direzione che mi interessa.

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Forse perchè siamo più bassi delle vette, forse semplicemente perchè il tempo è cambiato un poco, adesso si apre leggermente la nebbia, e riesco ad avere una visibilità un po’ maggiore di tanto in tanto. Dipende sempre da come si muovono le nuvole che stanno risalendo il crinale, lato mare. Sicuramente giù a valle sta facendo parecchio caldo e deve esserci un bel vento di scirocco caldo ed umido.

Poco oltre la fonte Leone, il sentiero prosegue deciso verso valle, ma il mio secondo obiettivo della giornata è il rifugio Gilwell, solo che si trova nell’altra vallata oltre la cresta che ho di fronte, ed il sentiero non va in quella direzione. Potrei tornare indietro, risalire fino al Monte Reixa e poi ridiscendere al Gilwell, ma se posso in genere evito di fare due volte la stessa strada.
Decido per un fuori-sentiero e inizio ad inerpicarmi nel bosco, da subito piuttosto ripido, arrampicandomi tra roccioni e pini verso l’alto per riuscire a scavalcare il torrente più a monte, visto che all’altezza in cui mi trovo le rive del canalone sono troppo ripide. Il mio obiettivo è passare dall’altra parte, svalicare e intercettare il sentiero che porta al Gilwell.

Mentre salgo ricomincia la pioggia, non eccessiva, ma insistente e sosto di tanto in tanto sotto ai pini mentre cerco di calcolare il percorso migliore per salire. So che devo evitare una parte dove è presente un ripido versante roccioso, ma data la nebbia non riesco a vederlo e non so se sono già arrivato all’altezza corretta.

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La pioggia insiste, e mentre sto pensado se sia meglio fermarmi un poco perchè sia la pendenza, sia l’erba bagnata, sia le rocce bagnate iniziano a farmi temere una qualche storta, il cielo decide di scaricarmi addosso una violenta ramata d’acqua.

Smollo l’incerata moooooolto di corsa e altrettanto di corsa la fisso ai rami di uno dei tanti pini, non ho sicuramente il tempo di usare squadretta e compasso, ma vorrei evitarmi una dilavata lì, fuori sentiero e con ancora parecchia riva da salire.
Approntato il rifugio di emergenza mi metto tranquillo e visto che comunque era l’ora faccio fuori uno dei panini.

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Non posso muovermi molto perchè la pendenza è vicina ai 40° e se muovo troppo il sedere rischio persino di scivolare fuori dall’incerata 😀

Passa un’altra oretta, mi rilasso osservando il bosco, le nuvole, la nebbia, e mi riposo un po’. Dopodichè finita la pioggia mi picchio con l’incerata bagnata per ridurla alla ragione e riuscire ad impacchettarla per riprendere la marcia.

Le nuvole si sono aperte un poco e riesco ad apprezzare meglio la salita che mi sto facendo se guardo giù a valle.

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Riesco ad arrivare in orizzontale al rio che scorre esattamente in mezzo al canalone, è completamente in secca, lo passo e arrivato ad un pino che cresce completamente orizzontale a causa dei forti venti di tramontana della zona vedo la vetta che devo svalicare per passare nella vallata dove so che troverò il sentiero che porta al Gilwell.

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Appena svalicato, con mia enorme sorpresa un capriolo salta fuori da una roccia a tre metri da me, ero sottovento e probabilmente non mi ha minimamente sentito o annusato, fa un bel balzo e scappa via protestando rumorosamente. Siamo fuori dai sentieri e probabilmente non si aspettava di trovare un tizio proprio lì 😀

Ma comunque svalico, e dopo poche decine di metri incrocio il sentiero come avevo preventivato, ma da quel versante la nebbia è più fitta che mai ed è mista a pioggia.
Arrivo fino al segnavia in pietra che so essere a una ventina di metri dal ricovero, e nonostante la corta distanza è come se il Gilwell non esistesse nemmeno. Appare solo indistintamente quando faccio ancora qualche passo.

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Al Gilwell è presente l’acqua e gli interni si presentano in questo modo: al piano superiore che so di solito essere chiuso, una camerata vuota, per dormire, al piano terra invece la sala “stufa” e tavoli con panche per mangiare. Solo che non c’è in giro nemmeno un pezzetto di legna, nemmeno nella legnaia, e intorno non è proprio “boscoso”. Probabilmente i reparti Scout che hanno in gestione il Gilwell, e che usano per i loro bivacchi, la legna la portano con sé alla bisogna.

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Dal Gilwell, dove mi fermo a mangiare un altro panino, vedo che le nuvole si alzano nuovamente e riesco a intravvedere l’abitato di fondo valle, con le case illuminate dal sole. Ma è solo un attimo e tutto viene riavvolto dalla nebbia.

Da questo ricovero ho due opzioni per tornare al Faiallo. O prendo il sentiero che prosegue (indetro per me) fino al Reixa oppure allungo il giro svalicando in un altro vallone e facendo il Bric Malanotte per sbucare infine direttamente al passo del Faiallo. Opto per quest’ultimo.

Lasciato il Gilwell si scende verso valle per una decina di minuti fino al bivio con il sentiero per il Bric Malanotte. Il paesaggio cambia nuovamente, sempre avvolto nella fitta nebbia, ma con grosse formazioni rocciose che si sviluppano sul crinale. Alla mia destra, dall’altra parte del vallone, il Bric Malanotte che non vedo, e sulla sinistra le grosse rocce che appaiono e scompaiono dietro veli di nebbia come enormi giganti cristallizzati nella montagna.
Lo spettacolo è suggestivo, sento di essere l’unica persona in giro oggi, la nebbia mi sospende in una dimensione completamente differente non vedendo la “civiltà” a valle ed esistono solo la montagna ed i giganti di roccia.
Appaiono e scompaiono, volti la testa e già la nebbia li nasconde per rivelarne altri poco oltre.

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Il sentiero scavalca il rio di questo canalone, il rio Malanotte e decisamente inizia ad inerpicarsi per portarmi in quota, verso il monte.

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Un improvviso sollevarsi di nubi svela il canalone del Rio Malanotte, con a destra il versante “dei giganti di roccia”.

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Superato il Bric Malanotte si arriva salendo ancora un poco fino alla quota del passo del Faiallo, in un punto chiamato San Gioachin dove nelle giornate limpide si vede tutta la costa ligure. Ma oggi tutto è un muro bianco e mi sta benissimo così. Mi sento benissimo sospeso tra cielo e terra con la consapevolezza che il mondo può aspettare.

Per arrivare al passo del Faiallo il sentiero diviene pianeggiante e si allarga mentre si inoltra in un fitto bosco di noccioli. Anch’essi, nella nebbia, assumono aspetti favoleggianti. Ed in alcuni punti sembrano merletti disegnati nel chiarore della nebbia.

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Sono alla macchina, un’altra bella giornata purtroppo è finita, ma in compenso ho deciso dove bivaccherò per una due giorni. E non sarà al Gilwell. Ma questa è un’altra storia.

Alla prossima

La Pineta a Pino nero e le miniere d’argento – Colle del Melogno

Chi si reca al Colle del Melogno in genere si ferma al bar-ristorante Din per un caffè oppure un pranzo, e prosegue per lasciare la macchina un chilometro e mezzo più su al Melogno e prendere uno dei vari sentieri che dipartono da quel colle.
Di solito in pochi fanno caso al largo sentiero che inizia proprio di fronte al bar e che subito sotto la cresta prosegue verso il mare, sulla collina che come cima ha il bric Gettina.

La particolarità di quest’area è la pineta di pino nero, figlia di un rimboschimento di parecchio tempo fa. Presenti anche molti noccioli, in alcuni punti molto fitti, oltre ad altre specie tipiche della nostra regione.
Sul versante orientale del Bric si trovano invece le antiche miniere d’argento abbandonate già trecento anni fa.

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Vista virtuale del Bric Gettina, la partenza del percorso è all’Ostaria Din. Più in alto la provinciale prosegue per il Colle del Melogno

Il percorso questa volta è tranquillo, almeno sul sentiero principale, la faccenda cambia se si vuole andare alle miniere, il meteo non preannuncia pioggia e anche il cielo è abbastanza sgombro dopo le piogge della notte prima. Quindi di mezzo mattino ci mettiamo in marcia, contavo di prenderci una giornata di semi-riposo dopo il bivacco della settimana scorsa al Sambugu, e di passare una tranquilla giornata con mio figlio a far caccia di un po’ di “reperti vegetali” da aggiungere al suo album degli alberi.

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Il primo incontro è un simpatico lumacone arancione al lato del sentiero

Poi inizia il sentiero, con forte presenza di noccioli e qualche rara betulla. Pochi i faggi che sono più tipici in questa zona e qualche quercia rossa. Un bel sorbo carico delle sue bacche attira la nostra attenzione.

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Ma presto inizia la pineta e qui il pino nero la fa da padrone

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All’altezza del Bric Gettina si dirama il sentiero verso le antiche miniere d’argento. Si ha notizia di attività estrattive fin dal 1400, ma la miniera è povera e già nel ‘700 viene abbandonata vista anche la difficoltà di trasporto e il poco profitto data la natura scoscesa del versante dove si aprono le miniere.
Ci inoltriamo sul sentiero e velocemente lo stesso inizia a scendere, quasi in verticale, sul fianco del monte. La vista è estremamente panoramica sulla vallata di Rialto, il paese a fondo valle. Occorre fare un po’ di attenzione perchè in alcuni tratti si cammina proprio a filo di un burrone e in genere il sentiero ha molte rocce e poco spazio per passare.

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E mentre scendiamo verso le miniere il tempo inizia a cambiare decisamente a brutto, la giornata è molto calda e pesanti nuvoloni stanno risalendo la cresta verso di noi, decido di procedere diretto verso le miniere per non farci sorprendere dall’acqua sul versante scosceso.

Il sito è stato ripulito decenni fa cercando di preservare le costruzioni d’epoca, le gallerie visitabili sono tre, una maggiore con altre due che la fiancheggiano. Subito di fronte agli ingressi delle miniere vi sono piccolissime aree in semi-piano prima che ricominci il burrone, con alcuni edifici quasi totalmente crollati oggi. Negli spazi antistanti le miniere si procedeva alle prime operazioni di sgrossamento dei blocchi di materiale. Alleggeriti del materiale inutile i blocchi venivano poi portati a dorso di mulo nel fondovalle. Quello che restava dalla pulitura iniziale veniva invece gettato direttamente nel burrone. Una delle costruzioni è ancora interamente in piedi, e viene chiamata “la casa del fabbro”.

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Arrivati sul posto iniziamo la nostra esplorazione. Dentro appaiono come semplici grotte naturali ed oltre alle zanzare, estremamente numerose, si trovano anche parecchi ragni.

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Mentre stiamo visitando l’ultima delle tre entrate si apre il cielo ed inizia a venire giù una ramata d’acqua, molto pesante. Allora improvvisiamo un “angolo cambusa” direttamente nella miniera al coperto tanto ormai era ora di pranzo e aspettiamo che spiova per tornare su verso il bricco e il sentiero principale.

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Finito di mangiare e aspettato ancora qualche minuto che finisse di piovere torniamo indietro facendo estremamente attenzione perchè ora le rocce su cui dovremo passare sono diventate estremamente viscide, ma per fortuna è tutta salita, ed è sufficiente guardare bene dove si mettono i piedi, e magari in alcuni passaggi tastare bene con il piede prima di trasferire completamente l’appoggio.

La pineta quando torniamo sul sentiero principale è immersa in una leggera foschia data dalle nuvole che hanno risalito il crinale e sembra quasi un bosco incantato.

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Proprio mentre stiamo per uscire definitivamente dalla pineta, sulla strada del ritorno, il sole fa capolino facendo brillare alcune foglie e illuminando la bianca foschia.

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E al prossimo giro voglio tornare nella Foresta della Barbottina, la faggeta su al Melogno che in autunno diventa qualcosa di magico, ma questa è un’altra storia.

Alla prossima.

Batoning

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Uno dice, ti compri il coltello e poi cosa ci fai? Ci tagli? No lo prendi a bastonate.

Ecco… mi manca il passaggio logico. Quello per cui la gente improvvisamente da qualche anno a questa parte si è messa a bastonare i propri coltelli.
Ho provato, quindi, a chiedere.

Le risposte sono state varie ed interessanti, ma sostanzialmente si sono divise in due categorie principali:
– Quelli che ammettono di farlo perchè si divertono.
– Quelli che invece dicono di farlo perchè “altrimenti non si riesce ad accendere un fuoco se non usi la legna più asciutta all’interno dei tronchetti di legno”.
– C’è poi una sparuta minoranza che lo fa per pigrizia. Questi non li prendo nemmeno in considerazione, del resto la motivazione che li spinge è: “Raccogliere legna? Ma stai scherzando? Noi uomini veri non pieghiamo la schiena per raccogliere la legna, noi uomini veri piuttosto spezziamo il coltello. Pfui”.

Tra i due gruppi (i ludici/chi non sa come fare altrimenti) preferisco di gran lunga i primi: ognuno si diverte come può, e se uno ha la voglia/possibilità di spendere molti soldi per acquistare un coltello che possa sopportare una discreta dose di bastonature – e lo mette comunque a rischio di spezzarsi – è un problema suo. Sul divertimento non metto becco, è personale.

Però veniamo un attimo ai secondi, quelli che dicono di farlo altrimenti non si trova legna “asciutta” (per esempio in condizioni di elevata umidità, tipo pioggia).

E parto da leggermente prima: quand’è che è necessario accendere un fuoco quando fa umido/piove?
Possiamo distinguere due macro casi: Quando ho preventivato di farlo (cioè sto facendo una escursione che prevede l’accensione del fuoco, per esempio se ho portato/mi è rimasto esclusivamente cibo che deve essere cucinato), oppure se sono in una situazione di emergenza (non preventivata) di serio rischio ipotermia ed il fuoco è l’unica maniera che ho per scaldarmi. O per segnalazione.

Sto parlando, in entrambi i casi, di necessità. Anche perchè, e non mi stancherò mai di dirlo, è vietato accendere fuochi nei boschi, tranne nelle aree predisposte ed autorizzate (quindi lo preventivo) oppure per reale situazione di emergenza (quindi non preventivata).

La bestia nera del fuoco è sempre stata: farlo partire.

Dunque, caso A: ho preventivato di accenderlo e so che potrei rischiare di trovarmi in una situazione di umidità.
Perchè lo sai giusto? Voglio dire le previsioni del tempo quando vai al mare le guardi con due settimane di anticipo, ogni giorno, per capire se potrai avere la tua tintarella sotto al sole o se pioverà, e quindi le guardi anche quando vai in escursione. Le guardi anche solo se programmi una grigliata all’aria aperta con gli amici. Giusto? E se le hai guardate non ti farai certo prendere impreparato quando sarà il momento di accendere il focherello per le salsicce, non sei mica un pivellino, sai per esperienza che puoi sia partire da casa con le esche pronte, sia raccoglierle per strada (eventualmente) man mano che ti avvicini all’area che vorrai utilizzare per bivaccare, sia portartele dall’ultima sosta bivacco che hai fatto.
Perchè se per caso sei uno di quelli che va in escursione senza guardare le previsioni del tempo, allora un piccolo digiuno la sera non può farti che bene: la prossima volta te lo ricorderai, ed è tutta esperienza che entra. Segnati di guardare sempre le previsioni del tempo. Segnati anche di pensare sempre che potrebbe esserci l’eventualità di non riuscire ad accenderlo e portati sempre viveri adatti. E ritenta. Si chiama pianificazione.

Poi c’è il caso B: la reale emergenza (reale necessità). Ovvero devo accendere il fuoco anche se non avevo preventivato di farlo.
In realtà non si discosta molto dal caso A. Perchè anche le emergenze si preventivano, e se magari sei tra quelli che si portano dietro accendino, acciarino, ferrocerio, altri 15 strumenti di accensione del fuoco e non ti sei portato/procurato le esche, bè, non dico che ben ti sta, ma ben ti starebbe.

Ma la soluzione per entrambi i casi – la voglia o la necessità di accendere un fuoco – è sempre la stessa: il bosco.
E le esche si trovano davvero in molti posti, anche se sta piovendo esattamente in questo momento o, peggio, se è una settimana che piove ininterrottamente.
Intanto non stare a guardarti i piedi, e inizia a tirare su lo sguardo, verso gli alberi, e cerca i rami e rametti secchi ancora attaccati all’albero. Nonostante la pioggia scoprirai che sono molto più asciutti dello stesso materiale che trovi magari per terra e scoprirai anche che ne troverai molti. Scarta quelli eventualmente marci e prendi quelli più secchi.
Se il bosco è particolarmente fitto allora anche alla base degli alberi hai delle possibilità di trovare legna meno bagnata. E sempre per terra puoi provare a guardare nella parte inferiore, non esposta alla pioggia, di tronchi caduti e sollevati dal terreno.
Inoltre piccole esche puoi avere la possibilità di trovarle anche in anfratti tra i rami bassi o altri ripari naturali che si formano con la conformazione del terreno.
Se poi trovi conifere o betulle sei proprio a cavallo. Le conifere contengono resina (ti basta guardare i tronchi degli alberi, qualche albero che perde resina lo trovi sempre, oppure alla congiunzione tra i rami e il tronco) e la betulla ha la corteccia completamente impermeabile, anche se è un albero caduto per terra e magari è lì da anni e dentro il tronco è completamente marcio, e scoprirai che la corteccia di betulla è sempre asciutta ed estremamente infiammabile.

Fatta la tua raccolta inizi a “grattare” i rametti più secchi che hai e ne fai polvere e trucioli. Dovresti avere sufficiente materiale per poter poi aggiungere legna di dimensione leggermente più grande quando l’esca prende fuoco, la trovi sempre nei posti di cui sopra, e sufficiente ad assicurarti di non farlo spegnere più. E quindi tieniti sempre dei rametti estremamente minuti vicino in modo da poterlo alimentare se vedi che vacilla. Se hai trovato della betulla puoi proprio inciderla e staccarne interi brani di corteccia che puoi usare sia come base per l’esca sia sfilacciarla e truciolarla.

Se sei in emergenza totale puoi anche guardarti addosso: solitamente sei vestito con materiale infiammabile, ed un pezzettino della tua maglietta, pantaloni, o anche mutande, va benissimo come esca.

Poi, appena il fuoco inizia ad autosostenersi puoi continuare aggiungendo altra legna piccola mentre ulteriore legna di dimensione maggiore puoi già accatastarla intorno al fuoco per iniziare a farla asciugare.

Perchè il fuoco produce questa magia: scalda e asciuga. Compresa la legna bagnata.

In ogni caso se la corteccia della legna che hai preso è estremamente bagnata (zuppa) puoi sempre scortecciare i rami e i pezzi di tronco che hai trovato in giro. Se dentro non sono marci, allora si asciugheranno molto in fretta una volta scortecciati. Se sono marci, sono marci anche se provi a bastonarli con il coltello.

E a fuoco avviato non c’è legno che possa “ucciderlo” (a meno che non decida di scaraventargli sopra un tronco d’albero e soffocarlo, ma mi auguro tu abbia un po’ di sale in zucca almeno).

Perchè vedi, nel caso in cui tu sia impossibilitato ad usare entrambe le braccia per “bastonare” il coltello (sei caduto e ti sei fatto male ad una spalla), oppure lo hai proprio perso, o magari quella volta non lo hai con te, o è rimasto nello zaino che ti è caduto giù da una riva, allora forse sapere accendere un fuoco anche in condizioni umide e senza “martellare il coltello” potrebbe essere utile. Ed eviti di rischiare la lama del tuo coltello.

In estrema sintesi: Alle scimmie se gli dai in mano un attrezzo la prima cosa che fanno è provare a “batterlo” e vedere l’effetto che fa. Noi siamo leggermente più evoluti, abbiamo un cervello, possiamo anche usarlo di tanto in tanto.

Alla prossima

Rifugio Sambügu

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L’entroterra di Arenzano è uno dei tanti posti meravigliosi che abbiamo in Liguria.

Questo fine settimana decido una due giorni in tenda con mio figlio, la cosa è rapida, prepariamo gli zaini, un poco di autostrada e in mezz’ora scarsa siamo all’uscita di Arenzano, destinazione il parcheggio del ristorante Agueta dove lasceremo la macchina per dedicarci a un po’ di tempo immersi nella natura dell’entroterra.

La meta scelta per il bivacco è il rifugio Sambügu, che è stato recentemente ristrutturato dall’associazione: U Gruppu (link nel testo). Hanno fatto un gran lavorone, se andate sul loro sito vi rendete conto in quale condizioni hanno ereditato quel rifugio. Oggi è diventato un piccolo gioiellino.

Ma torniamo al percorso. Una ventina di metri dopo il ristorante inizia un sentiero carrabile (a sinistra, con tabellone mappa sentieri in zona) che si inerpica velocemente lungo il fianco della collina. Sin da subito il paesaggio inizia a cambiare mentre sulla sinistra si intravvede il picco del Monte Rama, che svetta sopra i monti circostanti.

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Velocemente si arriva al primo punto di sosta, al Passo Gua, bivio da dove dipartono due sentieri, uno verso il “lago da Tina” (marmitte dei giganti del Rio Leone) e l’altro verso i Ruggi, più a nord rispetto al lago.

Esiste però un altro sentiero, non segnalato e ormai da anni abbandonato, che si distacca da quello verso il lago della Tina e scende a perpendicolo sul fianco della collina, diritto nella vallata verso Case Freghee che sono situate molto vicine al rio Lerone, rio che si origina dalla confluenza del rio Leone con il rio Giassu du vacche. Tempo ne abbiamo, voglia pure, decido di prenderla un po’ più “larga” e imbocchiamo questo sentiero che subito si infila nel folto, ed è cosparso di rovi e tronchi abbattuti. Come dicevo è un sentiero abbandonato, ma lo avevo già percorso e sapevo dove portava. Si poteva appena scorgere la traccia del sentiero, ed in larghi tratti occorreva farsi strada con il bastone per allontanare rami e sterparglie e per facilitare la discesa molto ripida e scoscesa. D’inverno risulta più semplice dato che l’erba non è così alta (si vede meglio dove si mettono i piedi) e tutta la vegetazione è più contenuta.

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Verso la fine del sentiero si incontra un vecchio bivacco completamente abbandonato anch’esso e con il tetto parzialmente crollato e subito dopo il bosco diventa più pianeggiante e leggermente più rado sulla sinistra, un ottimo posto per venirsi ad accampare (un’altra volta).

Questo piccolo sentierino arriva come dicevo a “Case Freghee” che sono su di un sentiero principale che porta al Passu du Figu, anch’esso vicino al lago della Tina. Subito noto uno strano andirivieni, perchè anche se è sabato troviamo parecchie persone che salgono da Arenzano su per questo sentiero. Decidiamo però immediatamente di scendere fino al Rio Lerone, per fare sosta per il pranzo, e abbandonate Case Freghee e sentiero prendiamo quello che scende, nuovamente ripidamente ma in buono stato, verso il torrente. Si sbuca sul torrente proprio in prossimità di un vecchio ponte di legno, che se si attraversasse porterebbe poi indietro verso Arenzano, in località Motta. Non proseguiamo e scendiamo sul torrente.

La stragrande maggioranza dei torrenti liguri sono estremamente suggestivi, in molti dei loro punti, presentando invariabilmente zone di “rapide” intervallate da piccolissimi “laghetti” dove il rio rallenta, e il tutto spesso completamente circondato dal bosco, assicurando buone zone d’ombra per le soste e un po’ di svago.

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A proposito di svago, visto che ci troviamo sul greto del torrente circondati d’acqua, decido di far accendere un piccolo fuoco a mio figlio, per scaldare un po’ di formaggio da infilare nel pane che ci siamo portati appresso.

E successivo spegnimento e ripristino del luogo a spuntino avvenuto! Ovviamente.

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Riprendiamo poi il sentiero per portarci su quello principale, visto che la meta per la notte sarebbe stato il rifugio Sambügu. Il sentiero procede in leggera salita, è ampio e coperto, ed è molto più rilassante del sentiero abbandonato che avevamo percorso in prima mattina.
Si arriva fino al Ponte di Negrone, grossa struttura che attraversa il Rio Leone (siamo proprio nel punto di confluenza dei due torrenti, Leone e Lerone), e subito a destra inizia in fortissima pendenza il sentiero “dell’Ingegnere” che porterà fino al Rifugio.

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Anche se siamo già a settembre, e anche se dalle previsioni doveva essere una giornata coperta, il sole picchia e il caldo è molto (siamo a quote molto basse, il rifugio stesso è a m. 480 sldm), avanziamo quindi lentamente e in tranquillità, sovrastando il Rio Lerone alla nostra sinistra e godendo del paesaggio che diventa sempre più aspro e meraviglioso, e con tratti apertamente montani.

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Decido di fare la “variante bassa” che è bassa solo nel nome, nel senso che è un giro leggermente più largo per arrivare al rifugio e segue il torrente, per finire con una arrampicata piuttosto ripida per riportarsi in quota, ma ad un certo punto ci troviamo la via sbarrata da un tronco messo in orizzontale ed una chiara striscia segnaletica, con un cartello che indica di prendere l’altro sentiero per arrivare al rifugio. Non sapendo il motivo dello sbarramento, e non volendo rischiare seguo l’indicazione per la via più diretta. Si sale e si sale in fretta, tradotto: molto ripidamente.

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Ed arrivati al rifugio abbiamo la sorpresa di trovare un sacco di gente dell’associazione che se ne prende cura, e lì scopriamo che è in corso la Maratona Mari e Monti 2018 ed il Rifugio è uno dei posti ristoro previsti sul percorso. Per fortuna ci siamo scampati il “traffico” avendo fatto tutti i nostri giretti fuori percorso nella mattinata – scopriamo che dal rifugio in mattinata sono passate un migliaio di persone – ma siamo contentissimi di aver conosciuto le persone dell’Associazione, gente preziosa che aiuta a mantenere vive le nostre montagne, facendo un servizio volontario inestimabile. Info per il viandante: Al Rifugio è presente l’acqua, non di sorgente, ma la prendono direttamente dal torrente, più a monte. Non è “certificata ufficialmente potabile” ma è potabile. Al massimo bollitela se non vi fidate, i viandanti che frequentano il rifugio la bevono direttamente.

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Passata la “scopa” (l’ultimo della maratona porta una vera e propria scopetta in saggina infilata nello zaino, per segnalare che dietro non c’è più nessuno) pochi minuti dopo il nostro arrivo, sgomberano tutti e mio figlio decide che la notte non l’avremmo passata in tenda: il rifugio è così bello che sembra una baita. “Insomma me l’hai fatta camallà pé ninte (la tenda)!” – dico io – “e allora stasera ti tocca cucinare a te!”.

Riattizziamo le braci che hanno fatto per farsi una grigliata i ragazzi dell’associazione e, finalmente soli, giù di magnata!

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Siamo qui, pochi km dal mare, pochi km dai motorini, sirene, motori d’auto, ma siamo fuori dal mondo, con una piccola casetta tutta da godere per noi, immersi nei rumori serali del bosco, e nient’altro.

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Passata la notte, toeletta e colazione, e lasciato un messaggio sul libro del rifugio, ripartiamo la mattina presto per il Passu du Figu, dal quale si scende per un ripido sentiero fino al Lago della Tinetta e poco dopo della Tina. Si prosegue lungo il torrente, salendo nella valletta.

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Lo spettacolo è come sempre suggestivo, toglie il fiato quando il sole spunta da sopra la collina a destra per illuminare la Marmitta della Tina, enorme incavo scavato nella roccia dal torrente nel corso del tempo.

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Ci fermiamo per rilassarci un po’ di tempo, a godere del paesaggio, dell’aria finalmente un po’ fresca, e per buttare qualche briciola di pane ai pesci che frequentano il torrente anche a questa altezza. Pesci estremamente affamati a questa altitudine, si buttano su qualsiasi cosa sfiori il pelo dell’acqua, con voracità.

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A metà mattinata, finito il ricreo ludico, riprendiamo il sentiero che dalla Tina riporta verso il Passo Gua (direzione verso Arenzano), ma prima di arrivare al passo lo lasciamo per prendere una deviazione verso il Riparo della Cianella (“Salamandre”) un vecchio riparo costruito ben 129 anni fa e attualmente mantenuto dal gruppo Scout di Arenzano. Spartano, ma ben tenuto, con un piccolissimo soppalco e disponibilità di “posti sacco” anche sul pavimento. Piccola fonte d’acqua sorgiva subito di fronte al Riparo, e possibilità di spazi tra gli alberi per sistemare eventuali tende.

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La tenda non la montiamo, ma visto che mi ero portato un’incerata montiamo quella per aggiungere un po’ d’ombra alla giornata estremamente calda.

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E poi, via di cucina, stavolta con un piccolo fornelletto fai da te, per evitare di usare il punto fuoco grande.

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Lavaggio gavette, un po’ di “riposo del guerriero” e si ritorna verso valle, verso i motorini, le sirene e i motori d’auto. Arrivederci Sambügu, torneremo a trovarti e con te i tuoi fratelli sistemati a quote più elevate. Ma questa è un’altra storia.

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Alla prossima.

Divertirsi nel bosco

Un paio di giorni fa girovagando su youtube mi sono imbattuto in una serie di video sul “bushcraft”. Ohibò, mi dico, e che roba è?

Poi inizio a guardare, e guarda qui e guarda là mi sono reso conto che esiste una vera e propria mania al riguardo, con tanto di bel business associato, canali sponsorizzati, gadget sponsorizzati, barbe lunghe e scarmigliate sponsorizzate.

Per andare a divertirsi nel bosco.

Ma dico io, allora sto facendo bushcraft da cinquant’anni e non lo sapevo!

Ma no, mi rispondo dopo un po’ di video, mentre continuo a guardarne, no non sto facendo bushcraft. Io vado solo a divertirmi nei boschi, sti tizi invece parlano di “filosofia di vita del ritorno alla natura”, di “strane suggestioni etimologiche del termine”, di “attrezzatura specifica bushcraft”, di “questo qui è bushcraft quell’altro la non lo è”, sta tazza qui sì, sto coltello là no guarda proprio no, e poi gli “strumenti specifici”, e quale di questi è meglio e quale non lo è, e queste sono le cinque C della sopravvivenza, e se non sai accenderti un fuoco con l’acciarino non sei nessuno…

Però non ne ho visto manco uno, e ne ho visionati tanti, che spiega come pulirsi il culo nel bosco. Sì lo so, esistono le “molto bushcraft” foglie degli alberi. Magari quando piove così ti fai anche il bidet incorporato.
Oppure d’inverno. In un bosco di faggi. Mi direte “E non saranno solo spogli faggi in questo bosco… qualche pino lo troveremo!”. Sicuro. Provateci a pulirvelo con gli aghi di pino.

Quella è la sesta C della sopravvivenza, anzi la prima: la Carta igienica. Fidatevi, se volete divertirvi e non sentire tutto il giorno il culo che vi prude, un po’ di carta igienica portatevela. E viene bene pure come esca per accendere il fuoco. Quindi è un “must” nel kit “Every Day Carrier”. Che poi significa semplicemente: quello che ti porti sicuramente sempre con te.

No, decisamente no, non sono un “tipo molto bushcraft”, nei boschi ci vado per divertirmi.

E tu caro lettore mi chiederai (perchè tanto sta domanda salta sempre fuori, almeno a vedere i commenti nei video che ho visto): cosa serve per INIZIARE a divertirsi nei boschi? Quale è l’ATTREZZATURA MINIMA e INDISPENSABILE?

Ecco… sei mai andato alla prima lezione (dimostrativa per vedere se ti piace) di una qualsiasi arte marziale? Non è che ci vai con Kimono giapponese da combattimento ultimo modello. Ci vai in tuta da ginnastica. Poi, se ti piace, se ne parla.

Se fai una domanda del genere (come si inizia, cosa serve) allora A TE l’unica cosa che serve è vestirti comodo, adatto alla stagione, capi non troppo “delicati” che nel bosco ci si sporca mediamente più che andando a fare shopping in centro, e un paio di scarpe comode. Sì anche da ginnastica vanno bene per iniziare, ovvio. Che altro? Una bottiglietta d’acqua che entri in una tasca e ti lasci le mani libere (così un po’ di autonomia senza avere la lingua penzoloni la hai), avvisare a casa dove diavolo stai andando e quanto pensi di stare fuori, prendere la porta, e infilarti nel primo bosco che trovi. Di cui però, hai già studiato almeno i sentieri. Cerca su internet, è pieno di informazioni, e ci sono anche i sentieri della zona dove vivi.

E poi svagati. Inventati un problema e cerca di risolverlo se vuoi. Oppure anche no, vagheggia in giro e tieni gli occhi aperti per vedere (osservare) il bosco (e per non perdere di vista il sentiero se ti addentri un po’, che poi di orientamento se ne parlerà più avanti).
Se non sai cosa ti serve per iniziare significa che non ci hai mai messo piede prima in vita tua in un bosco. Ecco, mettici sto piede e vedi se ti piace starci. Poi pian piano verrà fuori, e in maniera davvero molto naturale, cosa davvero ti serve a seconda di cosa vuoi fare, dove vuoi andare, quali obiettivi della giornata ti poni, ecc.

E l’acciarino.. non lo porto??
Lo sai, vero, che praticamente in tutta Italia è vietato accendere fuochi nei boschi, tranne che nelle aree debitamente attrezzate ed autorizzate? Se non hai mai acceso un fuoco in vita tua e vuoi iniziare a sperimentare le varie modalità di preparazione e gestione di un fuoco, lascia stare l’acciarino, procurati un accendino, vai in un’area debitamente attrezzata ed autorizzata e prova lì.

Piuttosto. Non ti scordare un po’ di carta igienica. Ne entra comodamente in tasca il quantitativo giornaliero necessario, e quella, sì, è davvero “salva-vita”.

Alla prossima.